In una giornata resa particolarmente difficile (per usare un eufemismo) dallo sciopero dei trasporti pubblici, siamo fortunosamente riusciti ad arrivare alla libreria-birreria Hop and Book (via dell’Amba Aradan 29/A) per la presentazione romana di Una medium, due Bovary e il mistero di Bocca di Lupo (Marsilio, euro 16), l’ultima fatica di Gaetano Cappelli. Alla fine di una piacevolissima serata (moderata con acume da Simone Caltabellotta), piena di aneddoti e battute, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lo scrittore potentino.
Anche in questo tuo ultimo romanzo stupisce la capacità di innestare una polifonia di storie su quella principale. È una formula che ti è sempre venuto naturale utilizzare o delle volte hai pensato a soluzioni stilistiche diverse per i tuoi libri?
Direi che tutto è cominciato da Parenti Lontani (uscito su Mondadori nel 2000 e ristampato da Marsilio nel 2009). Di lì in poi la tendenza “multistrati” della mia narrazione è diventata quasi un mood. Se dovessi poi pensare a un modello di riferimento, direi che il romanzo inglese del Settecento ha sicuramente avuto una sua notevole influenza sul mio modo di intrecciare in un’unica storia diverse storie.
Con questa sua terza apparizione (dopo quelle nel racconto Toccati in Canzoni della giovinezza perduta e in l’ombra del Falco obeso e la Corvette di Springsteen, a sua volta contenuto in Storie scritte sulla sabbia, entrambi editi da Marsilio, rispettivamente nel 2010 e nel 2014), Guido Galliano si candida ad esser il tuo personaggio preferito. È effettivamente così? E, se sì, quali sono i motivi di questa scelta?
Oddio, personaggio preferito non saprei, non ho mai pensato a lui in questi termini. Diciamo che l’ho sempre trovato molto simpatico. In generale, direi che è proprio il personaggio “scrittore” a piacermi molto. Anche in questo caso, devo chiamare in causa Parenti Lontani, parte tutto da lì. L’idea dello scrittore-protagonista mi ha sempre affascinato perché lo scrittore incarna alla perfezione (perlomeno i miei) la classica figura dell’antieroe, che a sua volta è un tòpos nella letteratura novecentesca. Inoltre, riesce ad aggiungere una sorta di componente “metascrittoriale” ai romanzi che, come è facile immaginare, non mi dispiace affatto.
In ogni tuo libro, il ricercato pastiche linguistico che utilizzi costituisce una cifra peculiare e sembra ambire a mete fonetiche e ritmiche sempre più elevate. C’è un metodo di lavoro, di associazione delle parole particolare dietro?
È vero, lavoro sempre molto sul suono delle parole. Magari in questo sono stato anche facilitato dalla mia precedente professione di critico musicale, che ha aguzzato il mio orecchio sull’aspetto puramente sonoro. Nel caso specifico della lingua utilizzata in Una medium, mi sono divertito tantissimo con il dialetto cerignolano che ho tentato di trascrivere: pensa che delle volte, rileggendo i passi del romanzo dove l’ho utilizzato, io per primo non sono riuscito a capire il significato di certe espressioni! Però, sempre, ho riscontrato un’eufonia delle parole che dava una musicalità tutta sua al periodo e faceva divertire me per primo. E poi ho inserito diverse traduzioni che aiutano a capire di cosa si sta parlando e a cogliere delle battute che altrimenti non avrebbero potuto essere apprezzate.
Finizia e Maddalena, le coprotagoniste dell’opera, incarnano (è proprio il caso di dire, visto la loro stazza!) uno stereotipo tipico di questi tempi, quello di chi vuol diventare uno scrittore a tutti i costi. Qual è il tuo punto di vista in materia?
Credo che sognare non costi nulla e, tra l’altro, dei tanti sogni che uno può fare, quello di diventare uno scrittore non è neanche il peggiore. Il problema sta nel verificare con obiettività il proprio talento e nell’accettare la reazione che quello che si scrive provoca all’esterno. Io credo che si possa essere buoni giudici di se stessi, ma che si debba tenere in debita considerazione anche i giudizi degli altri. Ovviamente, come in ogni cosa, ci possono essere delle eccezioni e assai notevoli. Mi viene in mente il caso di Melville, il cui Moby Dick venne accolto in modo a dir poco freddo da pubblico e critica. O, cambiando ambito ma rimanendo tra i grandissimi, quello di Johann Sebastian Bach, la cui fortuna iniziò ben dopo la sua dipartita grazie a Mendelssohn. Ritornando alla letteratura, è abbastanza recente la riscoperta di Stoner (Fazi, 2012) di John Williams, che quando uscì nel 1965 vendette meno di duemila copie e che oggi viene osannato dai lettori e dagli addetti ai lavori per il capolavoro che è. Insomma, per concludere questo discorso che non è facile da concludere, bisogna essere convinti dei propri mezzi, ma anche rispettare il parere degli altri e accettarne le critiche e i responsi.
Ti hanno spesso paragonato a Philip Roth per la tua capacità di caratterizzare benissimo in un unico libro molti personaggi e per la brillantezza della tua “commedia umana”: posto che, leggendoti, sembri essere più essenziale e sicuramente più giocoso del maestro americano, questo paragone ti lusinga?
Ma certo, assolutamente! Mi piace moltissimo Philip Roth, soprattutto perché, leggendolo, ha fatto sì che io potessi pensare: “Ma davvero si possono scrivere certe cose in un romanzo?”. Devo però anche dire che non amo tutta la sua ponderosa produzione. Preferisco sicuramente il primo Roth, quello del lamento di Portnoy, anche se credo che il suo vertice assoluto sia rappresentato da Il teatro di Sabbath, uno dei miei titoli favoriti di sempre, un capolavoro assoluto.
L’esilarante trovata della Christie quale “forzata narratrice” de La medium e il caso della cocotte fatta a fette (il libro che lo stralunato Galliano si trova a scrivere nel corso del romanzo) vuole essere in qualche modo anche un benevolo rimprovero verso tutti coloro che snobbano per partito preso la narrativa di genere?
No, la trovata della Christie non ha nessun sotteso critico. Diciamo che, essendo per antonomasia la figura dello scrittore di grande successo, risultava particolarmente funzionale tirarla in ballo all’interno di un’atmosfera “iperbolica” come quella del romanzo. D’altronde, Eusapia (la medium del titolo, ndr) vuole ottenere sempre il massimo dai suoi poteri! Per quanto riguarda il discorso della narrativa di genere, io non nutro alcun pregiudizio. E poi basta andare nelle librerie e dare un’occhiata agli scaffali dei best sellers (e non solo): la gente ama i gialli, i noir. Quindi…
Il malavitoso Cozzajanga è l’ennesimo personaggio larger than life che viene fuori dalla tua penna. C’è un modello al quale ti ispiri quando li crei o è solo la dimostrazione che anche in Italia, oltre che in America, i grandi scrittori sanno sfornarne con estrema naturalezza?
Beh, io credo che la letteratura sia piena di questi personaggi (che, tra l’altro, riscuotono sempre un grande favore da parte del pubblico). Se dovessi proprio indicarne uno che più degli altri mi ha illuminato nel definire i contorni del mio uomo di malaffare, direi che è Rinaldo Cantabile de Il dono di Humboldt di Saul Bellow, uno scrittore di una grandezza incommensurabile. Sul fatto che ci siano scrittori italiani in grado di creare figure di questo tipo, io ne sono assolutamente convinto, da sempre, e mi fa piacere che questa cosa oggi venga sempre più riconosciuta sia dalla critica che da chi compra i libri.
Leggendoti, si ha l’impressione che l’ironia sia una sorta di “arma di redenzione delle masse”. Il tuo è solo un castigare mores ridendo o cosa?
Sicuramente mi piace di sferzare i costumi con una risata, però non è solo questo. Io scrivo delle commedie che iniziano sempre con una situazione di difficoltà che poi va attenuandosi (non necessariamente si risolve alla fine, ma sicuramente si attenua), perché credo sia fondamentale dare ai propri lettori un senso di speranza, un’idea che le cose che vanno storte, in qualche modo, attraverso anche qualche arzigogolato intreccio del destino, possano cambiare in meglio. Chi legge deve sempre poter sognare e una buona risata, come dire, credo predisponga bene in tal senso.
C’è un libro, solo uno, che ti ha cambiato la vita e ti ha fatto capire che scrivere era quello che volevi fare? O si è trattato di una mera vocazione?
Un libro solo uno, no. Posso dirti che un giorno sono entrato in una libreria cercando Roth, soltanto che io ero partito per trovare Joseph e invece ho scoperto Philip… Per quanto riguarda la “chiamata” da parte del mondo della scrittura, posso dirti che non c’è mai stata in quei termini assoluti che a molti piace immaginare. Direi che si è trattato di una presa di coscienza progressiva della mia capacità di saper raccontare ed ora, anno di grazia 2016, eccomi qui.