Massimo Popolizio e “M Il figlio del secolo”: un capolavoro

All’Argentina fino al 3 aprile, “M Il figlio del Secolo”, tratto dal best seller di Antonio Scurati, è senza alcun dubbio uno degli spettacoli fondamentali della stagione teatrale italiana 2021-22, come dimostra anche la trionfale accoglienza riservatagli dagli spettatori del Piccolo di Milano nelle scorse settimane.

Era quindi un’occasione da non perdere quella di poterne parlare con il suo deus ex machina, Massimo Popolizio.

Ecco che cosa ci ha raccontato il regista e attore romano.

 

Partiamo da una domanda tecnica: 18 attori per 80 personaggi sul palco. Quanto è stato difficile, in questo periodo e con le restrizioni legate al Covid, lavorare con certi “numeri”?

Complicatissimo, una specie di “Vietnam”! Già durante le prime prove a Milano abbiamo dovuto far fronte a difficoltà di ogni tipo. Basti pensare che nel cast sono stati registrati ben 19 casi di positività durante l’allestimento, senza contare il fatto che, ad ogni singolo riscontro di infezione, tutti noi abbiamo dovuto indossare la mascherina. E non è esattamente agevole lavorare con microfoni e mascherine! In ogni caso non ci siamo mai fermati ed abbiamo avuto un appoggio da parte della produzione eccezionale.

Qual è, a livello registico, la sfida più ardua, soprattutto in termini visivi, che le ha posto la riduzione scenica del romanzo di Scurati?

Questo spettacolo è stato pensato per il Piccolo, dove c’è una scena grandissima. In casi come questo, si pongono diversi problemi per concepire come si deve i movimenti di scena, nel senso che tutto deve funzionare alla perfezione altrimenti si rischia di perdere facilmente e fatalmente in ritmo ed efficacia. A questo si aggiunge il fatto che “M” consta di ben 31 quadri da movimentare e diversificare in due tempi. La durata media di ognuno di loro è di 5 minuti, sicché c’è bisogno di una grande efficienza a tutti i livelli, si tratta quasi di lavorare come se fosse un allestimento circense.

Alla luce di quello che sta accadendo in Ucraina, lo spettacolo che portate ogni sera sul palco sta cambiando? Avverte, avvertite un riverbero emozionale particolare rispetto alle scorse settimane?

Assolutamente sì, soprattutto è cambiata la percezione che abbiamo della platea. Si sente la paura della gente, se ne avvertono le vibrazioni inquiete. E dire che, per renderlo più “digeribile”, nello spettacolo esistono diverse note comiche, grottesche, quasi brechtiane.

Tra difficoltà di ogni ordine e tipo, le stagioni teatrali hanno ripreso a funzionare. Dopo il suo ritorno in pista, che idea si è fatto della situazione? Ha riscontrato cambiamenti importanti dal punto di vista personale o rapportandosi al pubblico?

C’è una gran voglia da ambo le parti di riappropriarsi di qualcosa, questo è evidente e molto bello. Però bisogna anche cercare di capire se i teatri pieni siano un caso di questo momento o meno. Bisogna interrogarsi su come non tradire la generosità del pubblico, io credo. Il teatro ha bisogno di forma e di spettacolarità, deve essere bello, popolare e animato da un’idea di fondo sempre interessante. Le persone devono avere la certezza che certe cose si possano vedere solo all’interno di un teatro, ecco.

Una cosa che colpisce sempre dei suoi spettacoli è l’utilizzo mai neutro e mai banale dello spazio. Come concepisce lo spazio scenico Massimo Popolizio e cosa rappresenta per lui come regista, ma anche come attore?

Nello spazio scenico hai la possibilità (e il dovere) di decidere, inventare il tempo e il luogo, ma per farlo devi sempre tener presente che esistono delle regole alle quali attenersi. Io che vengo dalla scuola di Ronconi ho un’attenzione sempre viva sulle questioni tecniche, su come creare su un palcoscenico primi, secondi e terzi piani. Non si può pensare che l’approccio a un testo possa essere solo sentimentale, perché quello che si deve far vedere non funziona come un rotolo di scottex che basta solo srotolare per andare bene. In scena, bisogna essere sempre pronti al cambiamento e essere sempre coscienti che non esiste una neutralità reiterabile a lungo. E poi non si può, soprattutto, mai dimenticare che è legato alla parola e la parola richiede continuamente nuove soluzioni, perciò è necessario che sia “barocco” e coltivarne la vitalità

Tornando a “M”: come mai ha deciso di sdoppiare la figura di Mussolini in due diversi ruoli?

Inizialmente non dovevo partecipare allo spettacolo anche in veste di attore, ma poi la produzione ha insistito che ci fossi anche io nel cast, per cui mi è venuta in mente l’idea di sdoppiare la figura di Mussolini in due diversi ruoli, uno più borghese e in qualche modo rassicurante, ed è quello interpretato da Tommaso Ragno, e un altro più cattivo ed istrionico che è quello che interpreto io. Ad unirci in scena c’è un cappuccio da boia che ci passiamo continuamente per impersonare un mostro a due facce.

Che peso specifico ha per la riuscita di uno spettacolo come questo il feedback del pubblico in sala? Come contribuisce a farlo “accadere” ogni sera? Ed è un fattore questo che a teatro qualche volta può anche non avere rilevanza?

Per fare uno spettacolo di successo è necessario conquistare il pubblico ogni singola sera, a maggior ragione se fai uno spettacolo come “M” che è un’invenzione e non un classico della tradizione che ha, in qualche modo, un suo appeal già garantito. A Milano abbiamo fatto 10 sold out consecutivi (968 posti) e anche nelle prime repliche all’Argentina le cose sono andate andate molto bene. Il gradimento del pubblico è benzina sul fuoco emozionale che si scatena nell’attore. È fondamentale. Devo anche dire di aver riscontrato delle variazioni di gradimento tra una replica e l’altra, soprattutto nelle fasce di pubblico più giovane. Me ne rendo conto in particolare quando arriviamo alla fine, durante la canzone di Battiato che chiude lo spettacolo e sulla quale riceviamo l’applauso dei presenti.

Dopo questa stagione che possiamo considerare per certi versi interlocutoria, in cosa cambierà, secondo lei, il modo di immaginare, anche da un punto di vista economico, le nuove produzioni?

Non vedo esigenze troppo diverse rispetto al passato. È fondamentale che si mantenga l’idea di fare qualcosa di unico, secondo me, senza necessariamente fissarsi sull’idea di voler fare qualcosa di innovativo (anche se, per fare un esempio, non sarebbe male concepire uno spettacolo che possa essere ripreso “teatralmente” per poi avere anche uno sviluppo commerciale successivo alla rappresentazione. Soltanto che deve essere concepito immediatamente così, non basta piazzare una telecamera fissa davanti al palcoscenico e riprendere come troppe volte ho visto fare). Ma questo, più che da noi operatori dello spettacolo, dipende dalle direzioni artistiche dei teatri e dalle loro scelte. Una cosa molto intelligente, a mio giudizio, sarebbe immaginare nelle programmazioni uno spettacolo che rappresenti in qualche modo la “cifra” di un’intera stagione. Ci deve essere una specie di pianeta intorno al quale devono gravitare altri satelliti, evitando una parcellizzazione, definiamola così, che potrebbe andare a discapito dell’identità di un teatro. Soprattutto di un grande teatro, di un teatro di rilevanza nazionale.

In chiusura: nel 2022, quando si trova ad insegnare in Accademia ai suoi alunni, su quale fattore/obiettivo focalizza di più la sua attenzione?

Innanzitutto che non basta la voglia di esprimersi per diventare attori, non basta essere un essere sensibile per stare su un palco. Oggi tutto viene giustificato con il discorso che ognuno di noi ha un proprio “mondo interiore” quando ci si trova a dover giudicare un lavoro teatrale, ma non è così, non basta esprimerti, la faccenda è molto più complessa. In Accademia cerco di rendere i ragazzi consapevoli della complessità di questo mestiere, che è fatto di obiettivi sempre più difficili da raggiungere e di “asticelle” qualitative da alzare ogni volta, una cosa che provoca inevitabilmente delle crisi che vanno affrontate e capite per superarsi e diventare migliori. Bisogna poi considerare che i giovani che vogliono fare teatro spesso non sanno perché lo vogliono, è successo anche a me. Spetta ai più adulti, insegnanti e “chiocce”, fargli scoprire cosa davvero vanno cercando. Quando ero agli inizi, io ero molto attento, molto pronto a rubare quello che vedevo intorno a me. Sono stato molto fortunato a lavorare subito a certi livelli, ma è anche vero che ho aspirato fin da subito a diventare qualcosa, a capirmi. In scena non si entra mai sciatti, si deve avere una grande capacità critica e una predisposizione a saper affrontare continuamente i confronti e gli scontri con gli altri che inevitabilmente si verificheranno. Solo così si può aspirare ad una vera riuscita. Ed è fondamentale aspirare, cercare di diventare sempre più bravo e ottenere riconoscimenti (anche economici). Perché, sia chiaro, non c’è nulla di male nell’aspirare. È anzi un motore, emotivo e lavorativo, dal quale non si può e non si deve prescindere. Mai.

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